Archivio degli autori Emanuela Piombo

Ma se invece di sopravvivere al Natale decidessimo come vivercelo?

E anche quest’anno è arrivato Natale con il suo carico di luci, pacchetti, cibo, canzoncine e…scrooge articoli sulla depressione e su come sopravvivere allo stress!

Basta guardarsi in giro e fare un rapido sondaggio tra le nostre conoscenze: il Natale è una festa tanto amata quanto odiata, in grado di far emergere i sentimenti migliori ma anche i peggiori. Probabilmente questo accade perché il Natale ci costringe a fare i conti con i nodi irrisolti della nostra vita e delle nostre relazioni e con una serie di pressioni sociali e familiari.

Il piacere di stare in famiglia o anche da soli a fare qualcosa di rilassante, il piacere di donare qualcosa e di riceverlo, il piacere di passare un momento in cui si abbandonano le tensioni si traduce a volte in una specie di imperativo categorico dove proprio la dimensione del piacere si perde: non importa cosa sia accaduto fino al giorno prima, a Natale bisogna stare tutti insieme, bisogna farsi i regali, bisogna sorridere ed essere gentili. A colpi di “si deve” si rischia di indossare una maschera e di passare le feste in apnea, contando le ore che ci separano dalla libertà e sperando che non ci siano spiacevoli incidenti diplomatici. A volte poi crediamo noi per primi che ogni tensione, ogni maleducazione, ogni distanza debba magicamente sparire in virtù dello spirito natalizio, restandoci malissimo se questo non succede. Per questo può anche capitare di decidere di fare altro a Natale, stando lontani il più possibile da certe situazioni. Ma anche questa spesso più che una scelta serena diventa una reazione rabbiosa, pur sempre un “si deve” anche se auto-imposto.

L’idea di dover stare tutti insieme, anzi più precisamente tutti insieme in armonia, rischia di provocare nervosismi o tristezze: la vicinanza alle cose e alle persone importanti (nel bene e nel male) se non si traduce in giusta distanza rischia di provocare reazioni emotive molto intense. Ecco allora che iniziano a scoperchiarsi antichi vasi di Pandora fatti di tensioni, risentimenti, pretese e intrusioni varie nelle vite altrui.

A Natale cose apparentemente banali come la scelta del luogo in cui festeggiare, del menu, del regalo, di come disporre la tavola possono diventare fonte di stress e terreno di scontro perché finiscono per assumere potenti significati simbolici di cui non sempre ci rendiamo conto. A Natale persino una fetta di pandoro smette di essere solo una fetta di pandoro e può diventare uno stress, una misura della nostra bravura e ospitalità,  un messaggio subliminale, che ci sia da parte nostra un’intenzione in tal senso o no: il tipo di pandoro scelto, il modo in cui l’abbiamo tagliato, le dimensioni della fetta, il modo di servirlo e l’ordine con cui lo porgiamo ai presenti possono acquisire i più svariati significati.

Il Natale con il suo stare insieme moltiplica il peso di chi manca, dei legami persi, della solitudine, di ciò che non si ha, di ciò che c’era e non c’è più. Si può perdere la voglia di festeggiare perché si è soli, perché manca una persona cara, perché prevale la stanchezza. Ci si può sentire in difetto perché manca qualcosa che gli altri hanno o che in teoria sarebbe considerato normale avere, che si tratti di un partner, dei figli o del lavoro. Qualcuno potrebbe sottolineare ancora di più la situazione con commenti o domande inopportune, che fanno male. Si può anche passare il tempo a ricordare come era bello il Natale in passato, mentre adesso tante cose si sono perdute.

Avvicinarsi al Natale senza un equilibrio interiore significa rischiare di dare tanto spazio ai sentimenti negativi da perdere in gran parte o completamente la dimensione del piacere e a trarne un danno siamo solo noi. Che gli aspetti spiacevoli siano oggettivi o che siamo noi a dare alle cose un’interpretazione negativa, in ogni caso rischiamo di rovinarci la giornata, di lasciarla passare in sordina privandoci di qualcosa, di causare scontri o di “abboccare” alle provocazioni altrui. Quasi assicurato il risultato: ancora più negatività, stomaco attorcigliato, forse anche rimpianto per quella che invece poteva essere una festa più serena.

Non che si debba per forza trovare qualcosa di bello nel Natale, ma siamo sicuri di volerci limitare a subirlo e a sopravvivere ad esso invece che a viverlo? Il Natale è un classico momento di crisi in cui la distruzione si accompagna alla potenzialità creativa. . Lo spirito natalizio è quella stabilità interiore che vi permette di scegliere dove, con chi e soprattutto come trascorrere questo periodo. Cercate la giusta distanza, dopotutto siete voi a decidere quanto peso dare a cose e persone e a scegliere come comportarvi e reagire nelle diverse circostanze!  Non vi aspettate che qualcuno vi infonda magicamente dall’alto lo spirito natalizio, cercatelo dentro di voi e portatelo fuori da voi stessi: riscoprite il piacere delle piccole cose e abbiatene cura, proponete qualcosa di carino da fare insieme o qualche dettaglio o regalo divertente, riscoprite qualche vecchia tradizione e createne di nuove e se siete soli non rinunciate a prendervi cura di voi stessi e a fare qualcosa che vi piace, fosse anche stare su divano a leggere un libro contornati di lucine colorate. Buon Natale!

La percezione degli altri: l’importanza delle prime impressioni

Immagine2“L’abito non fa il monaco” dice il proverbio, eppure tutti noi quando incontriamo un’altra persona o quando semplicemente la osserviamo costruiamo una prima impressione su di essa. Anche se razionalmente sappiamo che le prime impressioni sono superficiali e che dovremmo andare oltre, spesso non abbiamo la possibilità di farlo e anche quando sarebbe possibile non lo facciamo. Dobbiamo inoltre essere consapevoli del fatto che una volta costruita un’opinione sugli altri non è affatto facile modificarla.

Siamo naturalmente portati a pensare che l’aspetto delle persone e quello che le persone dicono e fanno riflettano caratteristiche della loro personalità, il loro stile di vita o le loro preferenze personali. Questo succede perché crescendo accumuliamo nella nostra memoria moltissime conoscenze sulle caratteristiche delle persone, sulle situazioni, sui gruppi sociali e queste informazioni ci influenzano e ci forniscono una sorta di guida rapida per orientarci nella vita quotidiana.

Le prime impressioni si basano principalmente su tre elementi.

  • L’aspetto fisico è il primo e spesso il solo indizio a nostra disposizione e possiamo attribuirvi molti significati. Ad esempio gli occhiali possono farci pensare a una persona intellettuale, giacca e cravatta a una persona distinta, un viso dai tratti infantili a una persona gentile e onesta. Anche se razionalmente sappiamo che queste associazioni non sono sempre veritiere, quando incontriamo uno sconosciuto automaticamente facciamo affidamento su questi indizi per orientarci. Anche se può sembrarci un atteggiamento molto superficiale, si tratta di un meccanismo che spesso si rivela utile: se ad esempio vediamo una persona dall’aria minacciosa e con un’arma in mano siamo subito in grado di capire che dobbiamo scappare. Che ci piaccia o no sappiamo che il nostro aspetto fisico è la prima cosa che appare e infatti di solito nelle occasioni in cui vogliamo fare buona impressione tendiamo a curarlo maggiormente.
  • Il comportamento non verbale, dunque elemenqui quali  l’espressione del viso, lo sguardo, il tono di voce, la postura, possono trasmettere molte informazioni. Possiamo preferire le persone che mentre parliamo si pongono di fronte a noi e annuiscono perché interpretiamo ciò come interesse verso di noi. Chi ci guarda spesso negli occhi può sembrare cordiale e onesto, mentre chi evita lo sguardo può apparire scortese, sfuggente o timido. Se una persona sconosciuta ci guarda in modo insistente o ci si avvicina troppo a noi possiamo pensare che sia invadente o ostile. Spesso siamo poco consapevoli dell’effetto che il nostro comportamento non verbale può avere sugli altri.
  • I comportamenti, dunque ciò che una persona fa, vengono solitamente interpretati come se riflettessero aspetti della sua personalità. Questo accade soprattutto con alcuni particolari comportamenti: facilmente penseremo che chi fa volontariato sia altruista, che chi ruba sia disonesto e che chi picchia sia un violento.

Ci sono indizi che più di altri catturano la nostra attenzione, perchè sono nuovi, appariscenti, diversi nel contesto in cui ci troviamo. Un uomo vestito in modo elegante che spinge un passeggino probabilmente attirerà la nostra attenzione per il suo abito se ci troviamo a una festa per bambini. Potremmo pensare che sia una persona formale e sostenuta. Se invece ci troviamo a una cena di lavoro la nostra attenzione potrebbe essere attirata dal passeggino e potremmo pensare che quell’uomo sia un padre molto affezionato al suo bambino o che non abbia trovato una baby sitter disponibile a tenere il figlio per quella sera.

In realtà gli indizi che usiamo per costruire prime impressioni sugli altri non hanno significato di per sé, non indicano direttamente caratteristiche di personalità: siamo noi che in modo rapido e spontaneo li interpretiamo in base alle conoscenze che abbiamo accumulato.

I pensieri che abbiamo in mente in quel momento, le aspettative, l’umore, le motivazioni sono tutti elementi che possono portarci a interpretare uno stesso indizio in un modo piuttosto che in altro. Inoltre di solito più usiamo un certo concetto per interpretare gli indizi, più quel concetto diventerà automatico e più un pensiero è recente più tenderà ad influenzarci. Ad esempio è più probabile interpretare come ostilità i comportamenti altrui se siamo arrabbiati, se siamo in competizione con quella persona, se nella vita abbiamo sperimentato molte situazioni negative, di pericolo e minaccia, o subito dopo aver visto un film particolarmente aggressivo.

Un altro elemento che ci aiuta a interpretare gli indizi è il contesto in cui ci troviamo, perché ci fornisce altre informazioni utili a interpretare il comportamento e l’aspetto altrui.

esempio sociale

Dunque partendo dall’aspetto, dal comportamento e dal comportamento non verbale degli altri selezioniamo gli indizi più salienti e attiviamo delle immagini mentali che ci permettono di fare delle interpretazioni in termini di tratti della personalità.

Si tratta di un processo superficiale che può comportare degli errori. Razionalmente sappiamo che un comportamento può avere molte ragioni diverse e per questo a volte ci sforziamo di andare oltre le prime impressioni, provando a trovare una causa al comportamento altrui.

Ci sono comportamenti che ci sembrano legati a determinate cause in modo ovvio e automatico, soprattutto se quella situazione ci è familiare e dunque riconosciamo i comportamenti normali in quel contesto. Ad esempio se vediamo una persona piangere a un funerale potremo facilmente pensare che pianga perchè in quel momento è triste. E’ più difficile dare una spiegazione a un comportamento imprevisto rispetto a ciò che consideriamo normale in quella situazione.

In questo processo di ricerca di cause e spiegazioni siamo influenzati da alcuni elementi, come la cultura di appartenenza, il fatto che una certa spiegazione ci venga in mente più velocemente o in modo più lampante, la situazione contingente in cui quel comportamento si è verificato.

Se in ufficio vediamo un collega che si mangia le unghie mentre aspetta di parlare con il capo possiamo pensare che sia una persona nervosa. Facendo uno sforzo in più, soffermandoci su quella particolare situazione, potremmo renderci conto che il nostro collega non è una persona nervosa in generale, ma è nervoso in quello specifico momento.

Nervosismo

Il problema è che ragionare per correggere le nostre prime impressioni richiede tempo ed energia, dunque spesso non lo facciamo o lo facciamo in modo superficiale.

Se vogliamo farci un’idea più accurata dell’altro inoltre dobbiamo mettere insieme tutti i diversi indizi raccolti in un’immagine sufficientemente coerente. Una persona che lavora in banca, si vanta di guidare automobili costose e nel tempo libero fa teatro e volontariato può sembrarci al contempo una seria e impostata, vanitosa e materialista, creativa e altruista. Come possiamo mettere insieme in modo coerente queste informazioni?

Innanzitutto costruiamo vere e proprie teorie implicite di personalità: in base alle esperienze di vita e alla cultura di appartenenza tendiamo a pensare che certe caratteristiche vadano insieme. Se fa volontariato sarà generoso e anche socievole, se ha rubato è disonesto e sarà anche egoista, se fa sport estremi sarà coraggioso e quindi anche sicuro di sé.

In secondo luogo raggruppiamo le caratteristiche simili, quindi una persona che fa volontariato, che sostiene campagne pubblicitarie di tipo sociale e si occupa di politica a livello locale probabilmente ci apparirà come una persona socialmente attiva.

Infine cerchiamo di dare un senso ai comportamenti legandoli a particolari caratteristiche di personalità: una persona che occupa un posto di grande responsabilità in un’azienda e che è anche irascibile forse sarà molto competitiva e forse questo può spiegarci sia il suo successo lavorativo sia i suoi scoppi d’ira.

Nella ricerca di una spiegazione plausibile le nostre speranze e i nostri desideri ci influenzano: di solito cerchiamo prove che ci permettano di confermare la conclusione a noi più gradita. Se una persona ci piace probabilmente interpreteremo i suoi comportamenti in modo più positivo, trovando una spiegazione che non ci costringa a modificare negativamente la nostra opinione.

E’ invece nel momento in cui siamo fortemente motivati a costruire impressioni davvero accurate che facciamo uno sforzo in tal senso, ad esempio quando dobbiamo affidare all’altro un compito importante o lavorarci insieme o in tutte quelle situazioni in cui ci interessa avvicinarci all’immagine reale dell’altro qualunque essa sia.

Una volta che ci siamo fatti un’opinione sull’altro la useremo per orientare i nostri comportamenti, le nostre relazioni, i nostri giudizi: se cerchiamo un collaboratore affidabile non sceglieremo un candidato che non ci sembra tale perché magari arriva in ritardo; se vogliamo un coinquilino con cui divertirci preferiremo probabilmente quello a cui piace organizzare delle feste; se per noi in amicizia la sincerità è importante tenderemo a non approfondire i rapporti con chi non si comporta in modo trasparente e così via.

Ciò significa anche che i comportamenti che gli altri hanno nei nostri confronti potrebbero essere non tanto legati a loro caratteristiche di personalità, ma all’immagine che spesso inconsapevolmente diamo di noi stessi e al modo in cui i nostri comportamenti sono interpretati. Per questo motivo in terapia uno degli aspetti su cui spesso si lavora è il diventare più consapevoli degli effetti che i nostri atteggiamenti possono avere sugli altri.

Una volta che ci siamo costruiti un’impressione dell’altro non è facile modificarla, neanche quando scopriamo che l’impressione iniziale non era accurata o era falsa. Mentre conosciamo l’altra persona e raccogliamo altre informazioni infatti tendiamo a valorizzare di più gli indizi coerenti con l’idea che già abbiamo, interpretiamo i nuovi indizi in modo da adattarli all’immagine che già ci siamo costruiti e inoltre tendiamo a trattare le altre persone in modo coerente con le nostre aspettative. In questo modo spesso senza rendercene conto noi stessi suscitiamo negli altri proprio i comportamenti che ci aspettiamo da loro e così non siamo costretti a cambiare opinione sull’altro, ma anzi continuiamo a rinforzare l’idea che ci eravamo fatti.

Questo significa che soprattutto quando ci troviamo in difficoltà con una persona dobbiamo chiederci tra le altre cose se non siamo proprio noi a interpretare in modo negativo tutti i suoi comportamenti o provocare inconsciamente determinati comportamenti da parte sua.

Ad esempio, possiamo provare istintiva antipatia per un’altra persona, perché i suoi comportamenti e atteggiamenti ci appaiono sgradevoli e magari ci sembra che nel tempo quella persona si sia comportata in modo negativo. In base all’opinione che ci siamo fatti possiamo finire per dare molto peso a tutto ciò che ci conferma questa idea, ignorando i momenti in cui l’altro si è comportato bene o interpretando tutti i suoi comportamenti in modo negativo, ad esempio pensando che abbia agito in modo falso, magari per ottenere qualcosa. Possiamo cercare attivamente prove della sua cattiveria facendoci raccontare altri episodi in cui non si è comportato bene e possiamo addirittura fornirgli nuove occasioni per darci prova della sua negatività, ad esempio provocandolo apertamente o comportandoci senza rendercene conto in modo tale da farlo arrabbiare o da suscitare le sue critiche. Ma se un giorno quella persona facesse qualcosa di positivo, di così positivo da entrare palesemente in contrasto con l’opinione che ci eravamo costruiti? Potremmo ancora negare l’evidenza?

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Ebbene sembra proprio di sì! Quando siamo motivati a non cambiare la nostra opinione sull’altro la nostra mente si sforza di tenere insieme le informazioni incoerenti: cerchiamo una spiegazione e un senso a quel comportamento inaspettato e spesso ne troviamo la causa in situazioni particolari e circoscritte.

In realtà è quando ci troviamo di fronte a comportamenti inaspettati forti, estremi e non ambigui, per quali non troviamo nessuna spiegazione plausibile o quando siamo fortemente motivati a cambiare idea che abbiamo più probabilità di fare uno sforzo ulteriore, modificando l’immagine che abbiamo dell’altro.

Ne deriva quindi che se ci rendiamo conto di aver dato all’esterno un’immagine che non ci piace o che non è in linea con ciò che sentiamo di essere o con ciò che siamo diventati, allora dobbiamo innanzitutto imparare a riflettere sul nostro comportamento, renderci conto che gli altri si sono abituati a vederci in un certo modo e impegnarci ad agire diversamente, in modo chiaro e coerente.

Bibliografia

E.R. Smith, D.M. Mackie, Psicologia Sociale, Ed. Zanichelli, 2004

Insonnia, ansia e stress: se tra benzodiazepine e pensieri lieti ci si dimentica di ascoltarsi

Qualche giorno fa sul Corriere della Sera è stato pubblicato un articolo dal titolo “Milano non sa dormire. Contro stress e ansia in farmacia si vendono 100 sonniferi al minuto”

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L’articolo riporta i dati di una ricerca condotta dalla società New Line ricerche di mercato, secondo la quale ogni giorno nella città di Milano vengono vendute 6100 confezioni di farmaci per dormire. Stiamo parlando di oltre 128 mila pillole o dosi di gocce acquistate in 24 ore. I sonniferi rappresenterebbero il 6% dei farmaci venduti ogni anno e a farne uso sarebbe l’11% della popolazione sopra i 18 anni. In realtà i dati sul numero di abitanti ci dicono che anche nelle altre città si fa un certo uso di farmaci per dormire: a Roma li utilizzerebbe il 12% della popolazione, a Torino il 13%, a Firenze il 14%, a Bologna il 15%.

Gli esperti intervistati affermano che stress e ansia sono la prima causa di insonnia e che i farmaci più utilizzati sono le benzodiazepine, cioè medicinali che andrebbero venduti solo dietro ricetta medica e che andrebbero utilizzati sotto controllo medico e per periodi di tempo limitati, poiché possono avere effetti collaterali e generare dipendenza.

Ora, l’esperienza in realtà ci dice che diverse persone usano questi farmaci per periodi di tempo molto prolungati, anche a vita, senza farsi monitorare da alcun professionista, ottenendoli talvolta anche senza ricetta medica, con il concreto rischio di sviluppare una dipendenza e senza risolvere il proprio problema. Quando il medico prescrive farmaci del genere solitamente le raccomandazioni sul loro uso o l’eventuale consiglio di intraprendere un percorso di supporto psicologico passano in secondo piano e non è affatto detto che vengano seguiti. Sebbene infatti in certi casi i farmaci siano utili e talvolta indispensabili, l’idea di poter mettere a tacere l’ansia e lo stress con una pillola o qualche goccia risponde proprio al tipo di società in cui siamo immersi: una società del fare, dove si va di fretta, dove i malesseri fisici e psichici vengono trattati come seccature o vergogne da eliminare perchè dobbiamo essere in forma e sorridenti e chi si ferma a guardarsi dentro e intorno rischia di perdersi nei propri baratri interiori o di sentire che tanto non c’è soluzione, provando ancora più infelicità e frustrazione.

Dunque preoccupa, ma non stupisce, che nell’articolo non si faccia il minimo accenno allo psicologo come figura che può essere di aiuto in situazioni simili e che invece si riporti l’opinione di un noto avvocato matrimonialista, il quale afferma: “Sono arrivato alla conclusione che per addormentarsi tranquillamente bisogna sempre pensare alle cose liete”.

Premesso che quando si parla di disturbi del sonno è sempre bene verificare che non vi siano alla base problematiche di tipo organico, certi “consigli” appaiono riduttivi e banalizzanti. E’ un po’ come confidare un periodo di difficoltà a un amico o a un familiare e sentirsi rispondere “non pensarci”, “passerà”, “sei solo stressato”, “ti lamenti sempre”, “sei troppo ansioso”, “non è nulla, sei esagerato”, “e cosa dovrei dire io allora?” e altre risposte di questo tenore che fanno ben intuire quanto certe difficoltà negli altri possano essere vissute con fastidio o appunto con ansia, tanto da essere liquidate in tal modo.

Ansia e stress sono qualcosa che noi tutti conosciamo, magari non siamo persone particolarmente soggette a questi vissuti, ma ci sarà capitato almeno una volta nella vita di provarli dentro di noi. Possiamo vivere momenti di stress tutto sommato circoscritti e temporanei, pensiamo ad esempio a un esame o a un impegno lavorativo particolare, ma anche eventi generalmente considerati gravosi come la perdita del lavoro, un trasferimento, un divorzio, una malattia, la perdita di una persona cara. Possiamo anche arrivare a vivere la maggior parte della nostra vita in ambienti stressogeni, pieni di pressioni, in cui non ci troviamo bene con gli altri, in cui ci viene chiesto troppo o non ci sentiamo valorizzati, in cui cerchiamo di conciliare tutto correndo qui e là come trottole impazzite, in cui vorremmo ma sentiamo di non potere. A volte l’ambiente stressogeno è dentro di noi, i conflitti interiori diventano tali da non farci godere niente del nostro quotidiano e non c’è esperienza rilassante che tenga. Concentrarsi sulle cose positive, così come imparare delle tecniche di rilassamento o avere alcuni accorgimenti prima di andare a dormire (ad esempio evitare attività troppo stimolanti per il cervello), può aiutarci a rilassarci nei momenti più critici, ma questo certamente non basta se non ci diamo anche il permesso di sentire l’ansia, di interrogarla, esplorarla, di capire come funziona.

Per gestire l’ansia dobbiamo imparare a conoscerla, altrimenti possiamo solo cercare di bloccarla, di estirparla come se fosse qualcosa di estraneo e disdicevole, ma l’ansia c’è per un motivo, dice qualcosa di noi e della nostra vita, ci parla, ci dice che qualcosa non torna, che dobbiamo prenderci cura di noi. Forse abbiamo paura di ascoltare, ma seppellirla sotto un mucchio di pensieri lieti o di pillole rischia di renderla più forte. I pensieri lieti, le esperienze positive, le piccole gioie non devono diventare il classico tappeto sotto cui nascondere la polvere, né corde a cui restare disperatamente aggrappati sperando che non si consumino – nè tantomeno limitarsi a ostentazioni di finto benessere – ma casomai i pioli di una scala che attentamente intrecciata ci aiuta a calarci nelle profondità di ciò che non va con meno paura, con l’obiettivo di fare chiarezza, accettare certe nostre fragilità e potenziare le nostre risorse, capendo cosa è in nostro potere cambiare e come per avere una qualità di vita migliore.

 

 

Leggere: un piacere che passa dall’adulto al bambino.

lexI bambini nascono con una naturale spinta alla curiosità e all’apprendimento: sostenerla è importante, anche attraverso l’attività della lettura. Ma che significa leggere?

Leggere non è solo riconoscere correttamente lettere e parole, ma dare un senso al testo che si osserva, riuscendo a cogliere man mano un significato d’insieme. Questa attività è importante per lo sviluppo delle capacità emotive e cognitive e può essere proposta ancor prima che il bambino abbia acquisito abilità di lettura autonome. Se con l’accesso al mondo della scuola i bambini imparano gradualmente a leggere sempre più in autonomia, già prima è possibile coinvolgerli leggendo loro storie ad alta voce o guardando e commentando insieme le immagini.neonato

In questo senso il ruolo degli adulti diventa fondamentale: essi non solo possono favorire lo sviluppo di competenze di tipo cognitivo, ma anche stimolare l’interesse e l’amore verso i libri, i testi, le immagini. Poiché con l’ingresso nella scuola primaria il bambino deve fare uno sforzo per acquisire una serie di competenze complesse, avvicinarlo positivamente ai libri già prima può aiutare a ridurre l’emergere di un atteggiamento di avversione verso i testi scritti e favorire lo sviluppo di capacità cognitive e affettive importanti.

lettureI bambini non vanno in questo forzati, ma possono essere ad esempio abituati ad ascoltare piccole storie prima di addormentarsi, imparare che i libri sono qualcosa di importante, da trattare con cura, un regalo piacevole osservando i loro adulti di riferimento. Anche il modo in cui si legge è importante: usare una voce calda, coinvolgente, dalla quale possano trasparire diverse tonalità emotive e differenti personaggi aiuta il bambino a sentire la lettura come un’esperienza positiva, rasserenante, appassionante.

Anche a livello cognitivo, leggere ad alta voce abitua il bambino a un vocabolario più ampio e ciò a sua volta può rendere meno complessa la lettura autonoma: ad esempio, un bambino che inizia a leggere una parola di cui conosce suono e significato probabilmente avrà più facilità nel completarla automaticamente. Se la lettura è meno difficoltosa, il bambino potrà sentirsi maggiormente invogliato a proseguire e a scoprire come continua la storia.

Soprattutto all’inizio può essere molto utile l’utilizzo di testi in cui immagini e parole sono compresenti, ad esempio i libri con illustrazioni dei momenti principali della storia, i fumetti, i racconti-rebus in cui alcune parole sono sostituite da disegni.

Anche quando il bambino sarà maggiormente in grado di leggere in autonomia, continuare a incentivare questa attività è importante: proponendo libri adatti all’età e coinvolgenti, leggendo ad alta voce al bambinoleggere, è più semplice innescare un circolo virtuoso, in cui l’esperienza piacevole e sempre meno faticosa potrà stimolare il desiderio di ripeterla nuovamente.

Oggi in molte città sono presenti diverse librerie per bambini e biblioteche pubbliche che propongono anche attività ricreative e letture ad alta voce per le diverse età. Sapere che esiste un ambiente piacevole e stimolante, a propria misura, può contribuire a invogliare ancora di più i piccoli lettori.

 

Circuito CLEIO librerie per ragazzi

Biblioteche di Roma

 

 

IL BAMBINO CON DISPRASSIA: RICONOSCERNE I SEGNALI PER INTERVENIRE

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La DISPRASSIA è un disturbo evolutivo che colpisce la capacità di compiere gesti e azioni intenzionali finalizzati a un obiettivo. Si presenta principalmente attraverso la difficoltà nel coordinare i movimenti, che può comportare limitazioni in diversi aspetti della vita quotidiana, come vestirsi, lavarsi, allacciare le scarpe, fino a difficoltà di scrittura, lettura e comunicazione delle proprie emozioni attraverso i gesti. I bambini con disprassia faticano, infatti, a rappresentarsi, programmare ed eseguire gesti e movimenti tesi a uno scopo che normalmente si compiono in modo automatico e che invece in questi casi devono essere pensati e pianificati.

La difficoltà può esprimersi anche con una elevata sensibilità agli stimoli, come la luce, i rumori intensi, il tatto, nonchè con una particolare selettività nella scelta del cibo: sono, infatti, bambini che faticano a integrare gli stimoli a livello neurosensoriale.

La difficoltà a organizzare i movimenti delle mani e delle dita può portare a non riuscire a compiere gesti finalizzati all’uso di oggetti o gesti simbolici usati per comunicare e può essere inoltre presente ipotonia degli arti superiori.

Vi possono essere difficoltà di funzionamento dell’apparato fonatorio e oro facciale e nell’articolazione verbale, per cui il bambino può non sviluppare la capacità di parlare, dire poche parole o non riuscire ad articolarle bene.

Possono emergere inoltre disturbi percettivi, visuospaziali e difficoltà di attenzione, comportamento e apprendimento.

L’orgine del disturbo non è chiara. Sembrano entrare in gioco diversi fattori, in parte anche legati alla familiarità del disturbo e a difficoltà, anche lievi, durante la gravidanza e il parto o legati a prematurità e basso peso alla nascita.

La disprassia può essere generalizzata o colpire solo alcune particolari capacità (ad esempio il vestirsi, lo scrivere, il parlare, il camminare, ecc) e può essere in parte compensata dalla capacità del bambino di imparare nel tempo a compiere determinate azioni, che tuttavia vengono eseguite con lentezza.

Il disturbo è talvolta associato ad altre patologie, come la sindrome di Down, la sindrome di Williams, l’ADHD, i Disturbi pervasivi dello sviluppo. In altri casi, invece, non vi sono disturbi associati, nè segni neurologici evidenti e le capacità cognitive sono nella norma, ma possono emergere difficoltà emotive e comportamentali, poichè il bambino vive la frustrazione legata ai propri fallimenti scolastici o al non riuscire a svolgere determinati giochi o attività.

Per questo è importante riconoscere tempestivamente il problema e intervenire per consentire al bambino di recuperare e rinforzare le sue competenze.

A quali fattori di rischio prestare attenzione?

neonatoNel primo anno di vita del bambino:

  • Elevata irritabilità, difficoltà a trovare consolazione;
  • Difficoltà di suzione, alimentazione, sonno;
  • Difficoltà nei movimenti (cambiare posizione, afferrare oggetti col palmo della mano, manipolare gli oggetti);
  • Difficoltà a coordinare lo sguardo;
  • Ritardo nella comparsa del linguaggio, assenza di alcune fasi (lallazione, babbling);
  • Ritardo nelle capacità motorie (gattorare, stare seduto, mettersi in piedi, camminare da solo);
  • Attenzione rivolta agli oggetti molto breve.

In età prescolare:

  • Iperattività motoria;lego
  • Lentezza nello svolgere un qualunque compito e rinuncia in caso di difficoltà;
  • Scarsa capacità di attenzione;
  • Difficoltà nell’addormentarsi o nel sonno;
  • Produzione non di parole ma di suoni isolati, difficoltà nell’articolare parole, produzione inferiore alle 50 parole verso i 2 anni;
  • Difficoltà a seguire i ritmi e a coordinare i gesti con il ritmo di una canzone;
  • Confusione tra le parole che indicano relazioni temporali;
  • Numero di gesti limitato;
  • Capacità di salire e scendere le scale solo se aiutato, difficoltà a scendere o saltare un gradino;
  • Difficoltà nell’uso delle posate (viene imboccato o usa le dita), nello stare su un piede solo o in equilibrio sulle punte dei piedi, nell’uso delle forbici, nel pedalare sul triciclo, nei giochi che richiedono manualità fine (costruzioni, chiodini da infilare, travasi di acqua, puzzle), nella manipolazione e presa di oggetti;
  • Braccia rigide o cadenti lungo i fianchi nel camminare;
  • Difficoltà di socializzazione;
  • Disegno solo a scarabocchi;
  • Gioco simbolico (di finzione) assente o limitato.

In età scolare:

  • Difficoltà di concentrazione e attenzione in classe;
  • Difficoltà negli apprendimenti (soprattutto scrittura, lettura, matematica, elaborazione scritta di storie strutturate, difficoltà a copiare dalla lavagna);
  • Difficoltà nell’eseguire compiti in classe se non seguito in un rapporto uno a uno;
  • Lentezza nell’eseguire un compito;
  • Difficoltà nei movimenti e nel disegno.

A chi rivolgersi? La valutazione del problema deve essere svolta in modo accurato e coinvolgendo diverse figure professionali (psicologo, neuropsichiatra infantile, logopedista, neuropsicomotricista, ecc) per garantire un intervento integrato e completo.

Spesso è il pediatra il primo professionista a cui ci si rivolge, dunque è importante che il medico sappia raccogliere tutte le informazioni utili ed effettuare una prima ipotesi diagnostica, in modo da indirizzare chi si prende cura del bambino a un approfondimento più mirato.

La mia dichiarazione di autostima di Virginia Satir

essereIo sono io.
In tutto il mondo non c’è nessun altro esattamente come me. Ci sono persone che hanno alcune parti come me, ma nessuno equivale esattamente a me. Perciò, tutto ciò che esce da me è autenticamente mio, perché io solo l’ho scelto.

Mi appartiene tutto di me, il mio corpo, con tutto ciò che fa; la mia mente, con tutte le sue idee e i suoi pensieri; i miei occhi, con le immagini di tutto ciò che contemplano; i miei sentimenti, qualsiasi essi siano: rabbia, gioia, frustrazione, amore, delusione, eccitazione; la mia bocca e tutte le parole che ne escono: educate, dolci o aspre, corrette o scorrette; la mia voce, sonora o delicata; e tutte le mie azioni, siano esse verso gli altri o verso me stessa.
Mi appartengono le mie fantasie, i miei sogni, le mie speranze, le mie paure.
Mi appartengono tutti i miei trionfi e successi, tutti i miei fallimenti ed errori.
Poiché mi appartiene tutto di me, sono in grado di familiarizzare intimamente con me stesso. Facendo ciò sono in grado di amarmi e di essermi amica in tutte le mie parti. Posso allora far sì che tutto di me lavori per il mio migliore interesse.

So che ci sono degli aspetti di me che mi sconcertano e altri aspetti che non conosco. Ma finchè mi sono amica e mi amo, posso coraggiosamente e con speranza cercare le soluzioni ai rompicapo e i modi per scoprire di più su me stessa.
Comunque io sembri, qualsiasi cosa io dica o faccia e qualsiasi cosa io pensi in un dato momento, sono io. Questo è autentico e rappresenta dove sono io in quel momento.

Quando rivedo più tardi come sembravo, cosa ho detto, come ho pensato e sentito, certe parti possono risultarmi sconvenienti. Posso scartare ciò che mi risulta sconveniente e tenere ciò che si dimostra adatto e inventare qualcosa di nuovo al posto di ciò che ho scartato. Sono in grado di vedere, sentire, emozionarmi, pensare, dire, fare. Ho i mezzi per sopravvivere, per stare vicino agli altri, per essere produttivo e per dare senso e ordine al mondo esterno, alla gente e alle cose fuori di me.
Io mi appartengo e, perciò, posso progettarmi.
Io sono io e sono ok“.

Virginia Satir da “In famiglia… come va? Vivere le relazioni in modo significativo”

FIGLI, GENITORI E COMING OUT : USCIRE ALLO SCOPERTO IN FAMIGLIA

FIGLI, GENITORI E COMING OUT : USCIRE ALLO SCOPERTO IN FAMIGLIA

compassion-857723_640“Coming out” significa “uscire allo scoperto” e si riferisce solitamente alla scelta di dichiarare apertamente il proprio orientamento sessuale o la propria identità di genere.

Per le persone omosessuali o bisessuali, in particolare, il coming out rappresenta una tappa importante nella costruzione dell’identità e dell’autostima: è un processo che parte innanzitutto dall’accettazione di sé, per poter vivere con più serenità e senza nascondersi, imparando a gestire lo stigma sociale.

Nonostante, infatti, l’omosessualità non sia una malattia e ciò sia stato ufficialmente riconosciuto, la nostra società non appare davvero pronta ad accettarla come qualcosa di reale e naturale. I fatti di cronaca ci raccontano di violenze e discriminazioni, ma, più in generale, parte della società e delle istituzioni non accetta o lo fa solo a parole la realtà dell’omosessualità: non solo sono ancora diffusi alcuni stereotipi, ma si fatica a superare la paura che l’adeguata regolamentazione di diritti e doveri più paritari possa minacciare valori e forme di coppia e famiglia più tradizionali.

Dati Istat (Report 2011 sulla popolazione omosessuale nella società italiana) rilevano che la maggior parte degli intervistati riconosce l’esistenza di discriminazioni nei confronti di omosessuali, bisessuali e transessuali e probabilmente per questo il 29,7% ritiene che sia meglio che essi non rivelino il proprio orientamento sessuale.

La maggior parte degli omosessuali/bisessuali intervistati ha dichiarato di aver percepito o subito apertamente discriminazioni riferibili al proprio orientamento sessuale in diversi contesti e parte del campione totale (20%) ha preferito non fornire informazioni rispetto al proprio orientamento sessuale, segno che il tema è particolarmente delicato. Solo il 20% circa dei genitori di chi si dichiara omosessuale o bisessuale è a conoscenza della condizione del figlio, mentre sembra esservi maggiore possibilità di parlare con fratelli/sorelle (45,9%), colleghi (55,7%), amici (77,4%).

In ambito psicologico, alcuni studi hanno cercato di ipotizzare le origini dell’omosessualità o si sono concentrate sulle famiglie omogenitoriali, cercando di valutare il benessere dei figli.

Non ci interessano qui i risultati e le ipotesi, non appare utile assumere atteggiamenti giudicanti, in senso negativo o positivo, né pensare di dover dimostrare per forza qualcosa. Viviamo in una società in continuo mutamento e in cui tutti viviamo esperienze, relazioni, quotidianità molteplici, ma reali, delle quali dobbiamo prendere atto e incuriosirci. Dunque potremmo chiederci cosa possono vivere un figlio e una famiglia rispetto all’omosessualità e al coming out e quali sono le sfide che più spesso si troveranno ad affrontare: questo ci può aiutare a trovare modi adeguati di sostenere chi deve confrontarsi con queste tematiche e con queste tappe di vita.

Generalmente, il riconoscimento e la scoperta della propria omosessualità genera stress, soprattutto se si vive ancora in famiglia e in contesti che favoriscono lo stigma sociale. L’accettazione di sé come persone con un orientamento omosessuale, ma pur sempre di valore, può agevolare il coming out, che resta comunque un processo graduale e continuo, poiché man mano si sceglierà se, a chi e come dirlo.

È un passo che può essere vissuto diversamente da persona a persona, ma che per molti rappresenta una liberazione, dolorosa ma necessaria. È chiaro che sentire il supporto delle persone significative è importante, soprattutto in determinati momenti, tuttavia bisogna ricordare che il coming out di un figlio rappresenta un evento non previsto e dunque sconvolgente per la famiglia. Le reazioni potranno essere diverse in base alla particolare cultura familiare e individuale, alla qualità delle relazioni, alle modalità di funzionamento, alle aspettative sul figlio. Nei genitori possono farsi spazio emozioni anche molto ambivalenti, tra la rabbia, la vergogna, il sollievo, il senso di colpa, che possono essere elaborate più o meno velocemente o possono dare vita a un rifiuto irremovibile.

Non dimentichiamo che ormai i figli sono sempre meno, sempre più pianificati e caricati di aspettative e richieste di risarcimento affettivo e rassicurazione: qualunque ostacolo ai propri piani rischia di mettere in crisi i genitori. Si può avere paura per il benessere del figlio o sentirsi in colpa perché si pensa di aver sbagliato qualcosa o di non aver capito nulla di lui. Bisogna inoltre ridimensionare certe fantasie sul futuro dei figli che erano date per scontate e fare i conti con la paura dello stigma sociale.

In realtà, questi aspetti non sono insiti solo nelle situazioni di coming out da parte di figli omosessuali, ma più in generale si ripresentano ogni volta che un figlio sceglie di condividere una parte importante del proprio sé tenuta nascosta, perché soffre nel non potersi mostrare e nel non sentirsi riconosciuto come persona reale. Quante volte occultiamo a noi stessi o agli altri, in primis i nostri cari, parti di noi che pensiamo inaccettabili? Quante volte non abbiamo il coraggio di esprimere chiaramente le nostre scelte, inclinazioni, bisogni, emozioni per paura delle conseguenze o di deludere le aspettative? Se proviamo a riflettere in questi termini, ci rendiamo conto di come ognuno nella vita debba affrontare i propri coming out, indipendentemente dall’orientamento sessuale.

Un bel video su questo tema è stato realizzato nell’ambito del progetto Condividilove, in collaborazione con l’Associazione Agedo (Associazione genitori di omosessuali), in occasione del Coming Out Day 2015

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Virginia Satir

La vita non è quella che dovrebbe essere.
E’ quella che è.
E’ il modo in cui l’affronti che fa la differenza.